Quando ti trovi nel paddock del Las Vegas Motor Speedway per la gara conclusiva del campionato di Formula Indy, alzi lo sguardo e sullo sfondo del circuito vedi solo rocce rosse erose dal tempo.
Se lo prendi troppo alla leggera il deserto del Nevada non ti lascia scampo.
Il sole è una palla di fuoco ti brucia sopra la testa, caldo come non lo hai mai sentito prima. La pista è in fiamme prima ancora che la gara inizi e undici giri dopo la bandiera verde si scatena l’inferno. A 220 miglia orarie tutto succede in fretta.
Tredici monoposto vengono coinvolte in uno spaventoso incidente.
Il fuoco inghiotte Dan Wheldon e se lo porta via per sempre. 33 anni, nato in Inghilterra, per la seconda volta quest’anno aveva vinto la 500 Miglia di Indianapolis.
Io ero lì mentre tutto ciò accadeva.
L’attesa interminabile prima del tragico annuncio, il sentito cordoglio americano. Meccanici, tecnici e team manager schierati l’uno affianco all’altro di fronte alla corsia dei box, mentre i piloti, i sopravvissuti di questo armageddon, sfilano appaiati in segno di saluto. Per altre cinque volte percorrono quell’ovale maledetto. Un lungo ripetuto applauso accoglie i piloti ad ogni giro, mentre sulle tribune ammutolite senti solo gridare: “hats off!” signori “via il cappello!” in segno di rispetto. Io ero lì, senza parole e con la testa piena di pensieri.
Sette giorni dopo sono passato dalla perenne estate di Las Vegas all’autunno improvviso di Milano. Cambia il clima ma mi ritrovo di nuovo ammutolito e con altrettanti cupi pensieri nella testa mentre guardo la tv.
Siamo esseri viventi, siamo fragili, ma la morte non è qualcosa che riusciamo ad accettare, nostro malgrado, dobbiamo imparare a conviverci.
Saranno questi due episodi accaduti a breve distanza l’uno dall’altro, sarà che le gare mi appassionano, sarà che ho sempre adorato la moto gp. Sarà che avendo lavorato a Virgin Radio, il Sic l’ho visto passare negli studi, l’ho chiamato al telefono, l’ho sentito ridere e scherzare con Ringo, l’ho anche intervistato. Sarà che non c’è mai un’età giusta e 24 anni sono sempre davvero troppo pochi. Saranno questi ed altri motivi a farmi sentire così triste.
Accade sempre tutto tremendamente in fretta, solo la moviola riesce a mostrarti cos’è successo veramente. Fotogramma dopo fotogramma tutto appare gelido e spaventoso.
Quando ho sentito le parole di Paolo Beltramo mi si è gelato il sangue, le sue lacrime sono diventate le mie. Un uomo, un giornalista, un professionista che deve dare l’annuncio della morte di un amico in diretta nazionale. La voce rotta dal pianto di Guido Meda e Nico Cereghini che rivolge il suo, il nostro pensiero alla famiglia di Marco.
Ed è proprio lì che va il nostro abbraccio più grande, a quella casa tra le colline di Coriano stretta nel dolore, circondata dall’amore di chi a Simoncelli ha sempre voluto bene.
Ciao Marco